LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Sezione Tributaria Civile Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: dott. Antonio Merone - Presidente dott. Domenico Chindemi - Rel. Consigliere dott. Maria Giovanna C. Sambito - Consigliere dott. Lucio Napolitano - Consigliere dott. Ernestino Luigi Bruschetta - Consigliere Ha pronunciato la seguente ordinanza interlocutoria sul ricorso 578-2010 proposto da: Garlsson Real Estate Sa in liquidazione, Ricucci Stefano, Magiste International SA in persona del liquidatore e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliati in Roma via N. Ricciotti 11, presso lo studio dell'avvocato Michele Sinibaldi, che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati Donato Bruno, Fauceglia Giuseppe con procura notarile del not. dr. Pietro Mazza in Roma rep. n. 117712 del 22/10/2014; Ricorrenti contro Consob Commissione Nazionale Societa' Borsa intimato; Nonche' da: Consob Commissione Nazionale Societa' Borsa in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma via G. B. Martini 3, presso lo studio dell'avvocato Fabio Biagianti, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati Antonella Valente, Maria Letizia Ermetes giusta delega a margine; Controricorrente incidentale contro Garlsson Real Estate Sa in liquidazione, Ricucci Stefano, Magiste International Sa intimati; Avverso la sentenza n. 4297/2008 della Corte d'appello di Roma, depositata il 2/01/2009; Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 6/11/2014 dal Consigliere dott. Domenico Chindemi; Uditi per il ricorrente gli Avvocati Sinibaldi e Fauceglia che si riportano agli scritti; Uditi per il controricorrente gli Avvocati Ermetes e Valente che si riportano; Udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Ennio Attilio Sepe che ha concluso per il rigetto del ricorso principale in subordine accoglimento del 1° motivo, assorbito il ricorso incidentale. F a t t o Con sentenza n. 4297/08 in data 23.10.2008, la Corte di Appello di Roma, in parziale accoglimento delle opposizioni riunite proposte da Stefano Ricucci, Magiste International s.a. e Garlsson Real Estate, avverso il provvedimento sanzionatorio della Consob n. 16113/07, determinava in 5 milioni di euro la somma irrogata a Ricucci Stefano e alle societa' indicate quali obbligate in solido, ai sensi dell'art. 187-ter T.U.F. in relazione alla condotta illecita di manipolazione del mercato, confermando, nel resto, la delibera impugnata con riferimento alle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate alla Magiste International s.a. e Garlsson Real Estate (€ 103.291,00 per ciascuna societa'). Le sanzioni erano state irrogate per l'anomalo andamento dei titoli RCS mediaGroup s.p.a., riconducibile a condotte manipolative poste in essere da Stefano Ricucci nell'ambito di una strategia tesa a richiamare l'attenzione del pubblico sui titoli in questione e, per tale via, a sostenerne le quotazioni per il perseguimento di finalita' personali, sia attraverso operazioni di mercato sia attraverso informazioni diffuse al pubblico, alimentando aspettative di scalata di RCS e influendo sulla formazione dei prezzi del titolo, compiendo direttamente o per interposta persona una serie di atti volti a celare alla Consob fatti e circostanze relativi alla attivita' posta in essere sul titolo RCS. Stefano Ricucci, Magiste International s.a. e Garlsson Real Estate impugnano la sentenza della Corte d'appello deducendo i seguenti motivi: 1. violazione o falsa applicazione dell'art. 9 legge 689/ 1981 in relazione all'art. 187-ter e 187-quinquesdecies T.U.F. e omessa motivazione, in relazione all'art. 360 n. 3 e 5 c.p.c. rilevando l'erronea applicazione del principio di specialita' di cui all'art. 9 legge 689/1981, trattandosi di valutate i medesimi fatti apprezzati una volta come manipolazione del mercato e altra come ostacolo all'attivita' di vigilanza; 2. violazione o falsa applicazione dell'art. 187-septies, n. 2 T.U.F., della delibera 15.086 del 21/6/2005 della Consob recante disposizioni organizzative e procedurali relative all'applicazione di sanzioni amministrative, degli artt. 9 e 24 della legge 62/2005, e vizio di motivazione, in relazione all'art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., non avendo rilevato la Corte territoriale la violazione del principio della separazione della fase istruttoria e della fase decisoria, non essendo stato, inoltre, rispettato il principio del contraddittorio in quanto le parti non hanno avuto conoscenza, prima della conclusione della fase istruttoria, delle acquisizioni del documento rilasciato da Deutch Bank London, ne' hanno avuto possibilita' di esporre le proprie difese con riferimento alla relazione svolta dall'ufficio sanzioni amministrative contenente la proposta quantitativa della irroganda sanzione; 3. violazione o falsa applicazione dell'alt. 187-quinquies e 195 T.U.F., dell' artt. 6 legge 689/1981 e vizio di motivazione, in relazione all'art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., rilevando come la societa' Garlsson Real Estate, amministrata da un amministratore, anche di fatto, non e' responsabile in solido con l'autore delle violazioni di cui all'art. 187-ter T.U.F. del pagamento delle sanzioni irrogate per tali violazioni; 4. violazione o falsa applicazione degli artt. 187-ter, ultimo comma T.U.F., 3 legge 689/1981, della delibera 15.233 del 29/11/2005 della Consob, degli artt. 9 e 24 della legge 62/2005 e vizio di motivazione, in relazione all'art. 360 n. 3 e 5 c.p.c. rilevando come l'art. 187-ter T.U.F. detta solo formule astratte di illecito e non consente una sufficiente conoscenza della portata precettiva punitiva della norma, in tema di manipolazione di mercato mentre solo il successivo regolamento Consob citato, ma successivo ai fatti ascritti al Ricucci, ha carattere di individuazione delle fattispecie comportamentali di manipolazioni di mercato; 5. violazione o falsa applicazione dell'art. 187-ter, comma 3, lett. c) in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., rilevando l'erronea applicazione della normativa citata che indica una categoria di manipolazione operativa residuale nella quale possono trovare applicazione anche il collegamento delle attivita' di compravendita di titoli che adottano in concreto artifizi, inganni o espedienti che non siano di natura informativa, avendo la Corte territoriale trascurato che le variazioni intervenute sul titolo RCS fossero ascrivibili alle ingenti acquisizioni operate sul titolo da parte del Ricucci; 6. violazione o falsa applicazione dell'art. 187-ter, comma 3, lett. c), dell'art. 1 legge 689/1981, vizio di motivazione, in relazione all'art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., rilevando come le operazioni di acquisto e vendita di titoli nella medesima seduta non costituiscono di per se' una manipolazione di mercato; 7. violazione o falsa applicazione dell'art. 187-ter, comma 3, lett. c), T.U.F. dell'art. 1 legge 689/1981, vizio di motivazione, in relazione all'art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., osservando come nella operativita' borsistica l'utilizzo di piu' operatori puo' assumere rilevanza indiziaria o prova di manipolazione del mercato solo se viene accertato che tale espediente ha prodotto o avrebbe potuto produrre un'alterazione del mercato che altrimenti non si sarebbe verificata se gli ordini fossero stati impartiti da un solo intermediario; inoltre rileva che la concentrazione degli ordini nelle fasi di chiusura delle sedute borsistiche puo' assurgere a manipolazione del mercato ove vengano accertati gli inganni nei quali sono caduti gli altri investitori e che le variazioni dei prezzi non siano dovute ad altre circostanze estranee alla modalita' operative sanzionate dal T.U.F.; 8. violazione o falsa applicazione e difetto di motivazione dell'art. 187-ter, commi 1 e 3, lett. c) T.U.F., in relazione all'art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., osservando come la normativa citata sanzione la diffusione con qualsiasi mezzo, compreso Internet, di notizie false o fuorvianti in merito a strumenti finanziari restando estranee alla previsione del legislatore i comportamenti di diffusione di notizie false o fuorvianti inerenti alla qualita', capacita' del soggetto operante sul mercato e la capacita' fuorviante delle notizie riguardanti gli obiettivi, le strategie, le potenzialita' finanziarie ed economiche dello stesso operatore; 9. vizio di motivazione in relazione alle contestazioni di manipolazione informativa di cui agli articoli 120, 187-ter, commi 1 e 3, lett. c) T.U.F., in relazione all'art. 360 n. 5 c.p.c. rilevando come non costituisce manipolazione di mercato l'insieme di comportamenti che singolarmente o complessivamente esaminati non abbiano l'evidente determinazione di manipolare il mercato o comunque non abbiano in alcun modo alterato l'andamento dello strumento finanziario e del mercato in presenza di massicci acquisti di titoli che hanno concorso al rialzo della quotazione del titolo oggetto di scalata; 10. vizio di motivazione in relazione alle contestazioni di manipolazione informativa di cui agli articoli 120, 187-ter, commi 1 e 3, lett. c) T.U.F., in relazione all'art. 360 n. 5 c.p.c. in quanto la notizia falsa e fuorviante deve intendersi, ai sensi della normativa citata, come notizia oggettivamente falsa e fuorviante e non le notizie che derivano dalla legittima ricostruzione dei fatti operata da colui che diffonde la notizia; 11. vizio di motivazione in relazione alle contestazioni di manipolazione informativa di cui agli articoli 120, 187-ter, commi 1 e 3, lett. c) T.U.F., in relazione all' art. 360 n. 5 c.p.c., rilevando come non possano ritenersi false e fuorvianti, ai sensi della normativa citata, quelle notizie rivelatesi vere da fatti successivamente avvenuti, mentre la notizia puo' definirsi fuorviante quando rappresenti un quadro complessivo sostanzialmente distorto e che riporta al mercato una notizia che nella sua finalita' effettiva sia fuorviante rispetto alle effettive finalita' del soggetto che le diffonde; 12. vizio di motivazione in relazione all'applicazione della sanzione per la contestata manipolazione informativa di cui all'187-ter, commi 1 e 3, lett. c) T.U.F., e all'applicazione dell'aggravante di cui all'ultimo comma art. cit, in relazione all' art. 360 n. 5 c.p.c., rilevando come la sanzione prevista deve essere applicata rapportata alle conseguenze affettive dell'attivita' manipolativa, ovvero alla gravita' del pericolo corso dal mercato, rapportando tale pericolo a dati oggettivi di riscontro e non a semplici dichiarazioni di gravita' o di intensita' ed e' onere della Consob individuare gli effetti distorsivi subiti dal mercato, il pericolo nel quale e' incorso e le effettive conseguenze dell'attivita' manipolativa. La Consob si e' costituita con controricorso formulando anche ricorso incidentale condizionato chiedendo la cassazione della sentenza nella parte in cui ha esaminato e deciso la questione della violazione del principio del contraddittorio, eccedente il thema decidendum del giudizio. Nella more della udienza pubblica di discussione del ricorso venivano prodotti nuovi documenti. Il ricorso e' stato discusso alla pubblica udienza del 6.11.2014, in cui il PG ha concluso come in epigrafe. Motivi della decisione 1. Ammissibilita' della produzione documentale in data 21.10.2014. Preliminarmente deve essere esaminata l'ammissibilita' della produzione documentale in data 21.10.2014 con cui le parti ricorrenti hanno prodotto i seguenti documenti: 1) sentenza della Corte di Cassazione, settima sezione penale n. 35437/09 con la quale e' stato dichiarato inammissibile il ricorso proposto da Ricucci Stefano avverso la sentenza 10.12.2008 del Tribunale penale di Roma; 2) sentenza della quinta sezione penale del tribunale n. 24796/08 di patteggiamento della pena da parte di Ricucci Stefano, Magiste International sa, Garlsson Real Estate sae ed altri. Nella fattispecie risulta notificato alle altre parti, successivamente al deposito, l'elenco dei citati documenti prodotti (art. 372, secondo comma, cod. proc. civ.). Ai fini della ammissibilita' della produzione documentale sono rilevanti, per le motivazioni che saranno in seguito evidenziate, le ragioni di tale produzione, oltre che la data della sentenza del Tribunale di Roma e l'epoca di definitivita' delle sentenze penali prodotte. La sentenza del Tribunale di Roma 10.12.2008 n. 24796 e' divenuta definitiva per le societa' ricorrenti in data 2.1.2009 e per il Ricucci in data 11.9.2009, epoca di pubblicazione della sentenza della Corte di cassazione penale n. 35437/09 e, quindi, anteriormente alla notifica alla Consob del ricorso per cassazione avvenuta in data 28.12.2009, introduttivo del presente giudizio. Il deposito di documenti nel giudizio di cassazione e' regolamentato dagli artt. 369 e 372 c.p.c. Dal combinato disposto delle due norme risulta la regola generale che vuole che i documenti, purche' prodotti nei precedenti gradi del processo, devono essere depositati, unitamente al ricorso per cassazione, nel termine di giorni venti dall'ultima notificazione alle parti contro le quali il ricorso e' proposto. E risulta altresi' l'eccezione per cui il deposito dei documenti relativi all'ammissibilita' del ricorso puo' avvenire indipendentemente da quello del ricorso (e del controricorso), ma deve essere notificato, mediante elenco, alle altre parti. Quindi sono solo i documenti che attengono all'ammissibilita' del ricorso quelli dei quali e' possibile la produzione anche dopo la scadenza del termine di cui all'art. 369 c.p.c. e tali non sono certo quelli depositati dalla difesa dei ricorrenti i quali attengono invece alla (allegata) fondatezza della domanda, trattandosi di sentenze prodotte per dimostrare l'esistenza di un giudicato esterno rilevante ai fini della decisione, assumendo in ragione della loro oggettiva intrinseca natura, la qualifica di documenti. La giurisprudenza, invero, ha anche ammesso il deposito dei documenti prescritti a pena di improcedibilita' che non sia contestuale al deposito del ricorso, ma ha richiesto comunque il rispetto del termine dell'art. 369 c.p.c. (che nella specie comunque non sarebbe stato rispettato (Cass. Sez. L, Sentenza n. 10967 del 9/05/2013). Nel giudizio innanzi alla Corte di cassazione, secondo quanto disposto dall'art. 372 cod. proc. civ., non e', quindi, ammesso il deposito di atti e documenti non prodotti nei precedenti gradi del processo, salvo che non riguardino l'ammissibilita' del ricorso e del controricorso ovvero eventuali nullita' inficianti direttamente la sentenza impugnata, nel quale caso essi vanno prodotti entro il termine stabilito dall'art. 369 cod. proc. civ., con la conseguenza che ne e' inammissibile, in termini generali, la produzione in allegato alla memoria difensiva di cui all'art. 378 cod. proc. civ. (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 7515 del 31/03/2011). Nel caso di specie la produzione documentale concerne due sentenze successive a quella della Corte di appello di Roma, oggetto di impugnazione, pubblicata in data 23.10.2008 e la relativa produzione, in quanto documenti nuovi, sarebbe stata ammissibile contestualmente al ricorso per Cassazione ma non successivamente. Questa Corte ha infatti ammesso la produzione della sentenza anche nel giudizio di cassazione, in tema di rilevabilita' del giudicato esterno in sede di legittimita', quando esso si forma per effetto di una pronuncia della Corte di cassazione successiva alla proposizione del ricorso relativo al procedimento nel quale il giudicato o, comunque, la definitivita' s'intende far valere (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 1883 del 27/01/2011) ma non antecedente. Occorre, tuttavia, rilevare che la possibilita' di eccepire il giudicato (dovendosi equiparare, in ambito interunione, per le motivazioni che saranno evidenziate, anche la sentenza di patteggiamento definitiva) fosse nota o conoscibile dalla parte nel momento di formazione dello stesso, mentre se il giudicato o, comunque, la definitivita' della sentenza penale puo' assumere rilevanza in forza di un nuovo orientamento giurisprudenziale nazionale o interunione, formatosi successivamente al ricorso per cassazione, ne va ammessa la produzione fino all'udienza di discussione, essendo tale produzione esclusivamente funzionale alla dimostrazione del giudicato che, al momento di proposizione del ricorso, non aveva, invece, efficacia ai fini della decisione. La produzione di nuovi documenti deve ritenersi anche quale implicita richiesta di rimessione in termini che puo' trovare accoglimento in forza della pronuncia della citata pronuncia CEDU Sez. II, del 4 marzo 2014 (causa Grande Stevens ed altri c. Italia), successiva al ricorso, che ha affermato, per la prima volta, il principio del "ne bis in idem" tra provvedimenti amministrativi sanzionatori di natura penale della Consob e condanna penale per i medesimi fatti. Nel caso di specie puo' trovare applicazione, sia pure sotto diversa prospettiva da quella tradizionale, che si riferisce al mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo, il principio di prospective overruling che questa Corte ritiene di allargare anche alla prospettazione della applicazione nel presente giudizio del principio del "ne bis in idem" tra sanzione amministrativa e sanzione penale, consentendo anche in Cassazione la produzione tardiva di documenti ove la necessita' o utilita' della produzione documentale sia sorta successivamente alla proposizione del ricorso in forza di un nuovo orientamento interunione (nella specie della CEDU) sempre che tali documenti, come nella fattispecie, siano finalizzati all'esercizio di un diritto di azione o di difesa della parte, conseguente alla pronuncia della CEDU, a prescindere dall'esito dell'azione e dal riconoscimento del diritto vantato. Infatti in forza della sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, Sez. II, del 4 marzo 2014 (causa Grande Stevens ed altri c. Italia) assume, ai fini della decisione, per la prima volta rilevanza il giudicato penale sulla medesima vicenda, avendo la CEDU ritenuta sussistente la violazione, nei confronti dei ricorrenti, del principio del ne bis in idem consacrato nell'art. 4, par. 1, del Protocollo n. 7 della CEDU, il quale vieta la doppia applicazione di sanzioni penali nei confronti dei medesimi soggetti e per i medesimi fatti oggetto di sentenza passata in giudicato, rilevando che le sanzioni irrogate dalla Consob per la fattispecie di manipolazione del mercato di cui all'art. 187-ter TUF, benche' formalmente qualificate come amministrative dall'ordinamento italiano, debbono essere ricondotte alla "materia penale" agli effetti dell'art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU, e cio' in ragione sia della "natura dell'illecito" (ossia della rilevanza dei beni protetti e della funzione anche deterrente della fattispecie in questione) sia della natura e del grado di severita' delle sanzioni (pecuniarie ed interdittive) previste dalla legge e concretamente comminate ai ricorrenti. Inoltre l'art. 2 del Protocollo n. 7 vieta anche il doppio giudizio per gli stessi fatti da cui potrebbe desumersi l'illegittimita' di una sanzione amministrativa di natura penale a seguito di una sanzione penale definitiva. Nel caso di specie ricorrono cumulativamente i seguenti presupposti: a) si verte in materia di mutamento della giurisprudenza comunitaria su un presupposto (giudicato penale) che assume rilevanza successivamente alla proposizione del ricorso per Cassazione e che la parte non puo' piu' documentare senza violare una regola del processo (369 c.p.c.); b) tale mutamento deve ritenersi imprevedibile non essendo mai stata affermata in precedenza dalla CEDU la violazione, del principio del ne bis in idem consacrato nell'art. 4, par. 1, del Protocollo n. 7 della CEDU, il quale vieta la doppia applicazione di sanzioni penali, anche con riferimento alle sanzioni irrogate dalla Consob, ricondotte alla "materia penale" agli effetti dell'art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU; c) effetto preclusivo, ove non trovasse applicazione il principio dell'overruling, del diritto di difesa della parte che, nel caso di specie, sarebbe impedito dalla tardiva produzione delle sentenze attestanti il formarsi della loro definitivita' al fine di invocare l'applicazione, nel nostro ordinamento, del principio del "ne bis in idem" in forza della citata sentenza della Corte di giustizia. Dalla produzione documentale ammessa si evince la definitivita', nei confronti dei ricorrenti, della sentenza di patteggiamento in relazione, tra gli altri, ai reati di cui all'art. 185 d.lgs. 58/1998 come modificato dall'art. 9 l. n. 62/2005, e nei confronti delle altre societa' ricorrenti in relazione ai reati di cui agli artt. 5 e 25, comma 2, d.lgs. 231/2001, in relazione alla commissione del delitto di cui agli artt. 110, 319, 321 c.p. (Magiste Real Estate s.a.) e all'illecito amministrativo previsto dagli artt. 5, 25-ter lettera r), 25-sexies d.lgs. 231/2001, in relazione alla commissione del delitto di cui agli artt. 81 c.p., 185 d.lgs. n. 58/98, delitto commesso a vantaggio delle societa' Magiste Real Estate s.a. e Garlsson Real Estate s.a., collegate tra loro e riferibili al gruppo Ricucci da persona che rivestiva al momento del fatto funzioni di rappresentanza delle societa', essendo il Ricucci amministratore di diritto della Magiste Real Estate e amministratore di fatto della Garlsson Real Estate. 2. Rilevanza nei presente giudizio della sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, Sez. II, del 4 marzo 2014 (causa Grande Stevens ed altri c. Italia) e la sua efficacia nell'ordinamento nazionale. 2.1 Ancorche' nella indicata pronuncia si faccia riferimento, ai fini dell'applicazione del principio del ne bis in idem tra condanna definitiva penale e amministrativa (relativa ad una fattispecie analoga, ma non simile, in quanto, nella fattispecie oggetto di esame da parte della CEDU trattavasi di sentenza penale successiva a giudicato sulla sanzione amministrativa e non viceversa, come nel presente giudizio in cui si e' esaurito prima il giudizio penale rispetto a quello amministrativo ancora sub iudice), si ritiene che il principio espresso dalla CEDU sia bidirezionale trovando applicazione sia nel caso di sanzione amministrativa precedente a quella penale sia nel caso inverso. In forza del principio del favor rei, va assimilata la sentenza di patteggiamento a quella penale di condanna, rivestendone tale sostanziale natura, conservata pur dopo la espressa previsione della sua assoggettabilita' a revisione, contenuta nell'art. 629 cod. proc. pen., nel testo modificato dall'art. 3, comma primo, della legge 12 giugno 2003 n. 134, pur non implicando un accertamento della penale responsabilita' dell'imputato, con relativo obbligo di motivazione, ma richiedendo solo la verifica dell'insussistenza delle cause di non punibilita' previste dall'art. 129 cod. proc. pen. (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 28192 del 4/03/2004 Ud. (dep. 23/06/2004). In particolare, ai fini della valutazione dei principi ricavabili dalla pronuncia della CEDU cit., si ritiene che siano equiparabili la sentenza penale di condanna e quella di patteggiamento di cui siano spirati i termini per l'impugnazione peraltro confermata, nei soli confronti, del Ricucci, dalla Corte di cassazione e che, quindi, al giudicato penale sia equiparabile la sentenza di patteggiamento ormai definitiva o perche' non impugnata (nei confronti delle societa' ricorrenti) o a seguito di impugnazione (nei confronti del Ricucci). Infatti il cd. patteggiamento, regolato dall'ad. 444 c.p.p. e segg., e' un istituto processuale in base al quale il p.m. e l'imputato si accordano sulla qualificazione giuridica del fatto contestato, sulla concorrenza e comparazione delle circostanze, sull'entita' della pena con rinunzia a far valere eccezioni e difese di natura sostanziale (nei limiti dell'art. 129 c.p.p.) e processuale (nei limiti dell'art. 179 c.p.p.) salvo che si tratti di eccezioni attinenti alla richiesta di patteggiamento e al consenso prestato. La natura di sentenza di condanna del patteggiamento e comunque di sanzione penale, e' ulteriormente confermata dalla possibilita' per il giudice di pronunciare sentenza di assoluzione ex art. 129, comma secondo, cod. proc. pen. sia pure nei casi in cui emergano chiaramente le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la sua rilevanza penale ovvero la non commissione del medesimo da parte dell'imputato (cfr Cass. pen. Sez. 2, Sentenza n. 9174 del 19/02/2008 Ud. - dep. 29/02/2008). Ne' inficia tale valutazione la possibilita' di revisione della sentenza di patteggiamento, richiesta per la sopravvenienza o la scoperta di nuove prove, che comporta una valutazione di queste ultime alla luce della regola di giudizio posta per il rito alternativo, sicche' le stesse devono consistere in elementi tali da dimostrare che l'interessato deve essere prosciolto secondo il parametro di giudizio dell'art. 129 cod. proc. pen., si come applicabile nel patteggiamento (cfr Cass. Sez. 6, Sentenza n. 31374 del 24/05/2011 Cc. (dep. 05/08/2011). In ogni caso trattasi, comunque, di pronuncia che ha chiara natura di sanzione penale. 2.2 La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, e' una convenzione internazionale ratificata e resa esecutiva in Italia con legge ordinaria 4 agosto 1955 n. 848. Formalmente l'ordinamento della CEDU e' differente e distinto da quello dell'Unione europea. Diversi sono anche gli strumenti e delle procedure previsti per garantire la conformita' del diritto interno rispetto al diritto interunione e a quello di natura convenzionale della CEDU, essendo diversi anche i vincoli derivanti dall'appartenenza dello Stato italiano all'ordinamento CEDU rispetto a quello dell'Unione europea. Questa Corte non ignora l'orientamento dottrinale che ritiene che anche le sentenze della CEDU, al pari di quelle della Corte di Giustizia, abbiano efficacia diretta generale nel nostro ordinamento. Deve, al riguardo, distinguersi tra efficacia della pronuncia tra le stesse parti e efficacia generale erga omnes. La sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, una volta divenuta definitiva tra le parti ai sensi dell'art. 44 della CEDU, ha effetti precettivi immediati assimilabili al giudicato e, in quanto tale, deve essere tenuta in considerazione dall'organo dello Stato che, in ragione della sua competenza, e' al momento il destinatario naturale dell'obbligo giuridico, derivante dall'art. 1 della CEDU, di conformare e di non contraddire la sua decisione al deliberato della Corte di Strasburgo per la parte in cui abbia acquistato autorita' di cosa giudicata in riferimento alla stessa "quaestio disputanda" della quale continua ad occuparsi detto organo (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 19985 del 30/09/2011) Quanto all'efficacia diretta orizzontale, estesa erga omnes, il giudice nazionale deve ricorrere, ove possibile e ove la normativa lo consenta, alla interpretazione comunitariamente orientata che delle norme pattizie viene data dalla Corte di Strasburgo, con la conseguenza che, nella realizzazione dell'equo processo ed allo scopo di assicurare la parita' effettiva delle armi in senso sostanziale e processuale (art. 111, 1 comma, Cost.), il giudice interno, affinche' la sua statuizione risulti aderente alle norme della Convenzione, deve tenere conto anche dell'elaborazione del diritto vivente quale proveniente proprio dalla Corte di Strasburgo, che della Convenzione e' il piu' autorevole interprete. In forza delle sentenze della Corte costituzionale n. 348 e n. 349 del 2007 emerge che la Convenzione costituisce una fonte interposta tra il piano costituzionale e quello delle leggi comuni, perche' si profilerebbe l'eventuale esigenza di un bilanciamento tra i diritti della Convenzione e gli stessi diritti costituzionalmente protetti. Va, quindi, riconosciuta, in termini generali, solo una efficacia esecutiva "indiretta" delle sentenze CEDU perche' esse obbligano gli Stati ad adeguarvisi, pur lasciandoli liberi di scegliere le misure piu' idonee al riguardo. Tuttavia sussiste l'obbligo, a carico degli Stati che abbiano commesso una violazione accertata dalla Corte, ai sensi dell'art. 46, paragrafo 1, CEDU di adottare misure specifiche volte al superamento della stessa. Quindi, le norme della Convenzione europea non hanno una efficacia esecutiva diretta nel nostro ordinamento e vanno rispettate dal legislatore nazionale ai sensi dell'art. 117, primo comma, della Costituzione, mediante un'interpretazione comunitariamente orientata, ove possibile, a differenza del regime previsto dagli articoli 244 e 256 TUE per le sentenze della Corte di giustizia. Il giudice nazionale deve, infatti, interpretare il proprio ordinamento in modo conforme alla CEDU, per come essa vive nella giurisprudenza della Corte europea. La vincolativita' di tale giurisprudenza (anche al di la' del caso deciso) non puo' condurre, pero', disapplicare il diritto nazionale, quando esso ha un contenuto che non consenta in alcun modo una interpretazione conforme a detta giurisprudenza. In tal caso si impone al giudice di sollevare una questione di costituzionalita'. Il problema interpretativo derivante dalla giurisprudenza della Corte europea si sostanzia, in estrema sintesi nella alternativa tra interpretazione conforme a detta giurisprudenza ed incidente di costituzionalita'. La Consulta (sentenze n. 348 e 349 del 2007) ha statuito, ed a tale orientamento il Collegio ritiene di attenersi, che nel caso in cui il giudice nazionale ravvisi una incompatibilita' tra norma convenzionale e norma costituzionale, gli atti vanno rimessi al giudice delle leggi. La sentenza della Corte Costituzionale n. 348 del 2007 ha, al riguardo precisato che "la Convenzione europea .... non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Essa e' configurabile come un trattato internazionale multilaterale ... da cui derivano "obblighi" per gli Stati contraenti, ma non l'incorporazione dell'ordinamento giuridico italiano in un sistema piu' vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti ... per tutte le autorita' interne degli Stati membri". Ne consegue che il giudice non ha il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, poiche' "l'asserita incompatibilita' tra le due si presenta come una questione di legittimita' costituzionale, per eventuale violazione dell'art. 117, primo comma, della Costituzione, di esclusiva competenza del giudice delle leggi". Tale valutazione non e' inficiata dall'entrata in vigore del Trattato di Lisbona (1° dicembre 2009), che ha modificato il Trattato sull'Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunita' europea, avendo la Consulta rilevato che il Trattato di Lisbona non ha «comportato un mutamento della collocazione delle disposizioni della CEDU nel sistema delle fonti, tale da rendere ormai inattuale la ricordata concezione delle "norme interposte"», con la conseguenza che si deve «escludere che, in una fattispecie quale quella oggetto del giudizio principale, il giudice possa ritenersi abilitato a non applicare, omisso medio, le norme interne ritenute incompatibili con l'art. 6» della CEDU. (Corte Cost. 1.3.2011 n. 80). Le norme CEDU, cosi' come interpretate dalla Corte di Strasburgo, si collocano, come gia' evidenziato, ad un livello sub-costituzionale e sono soggette al controllo di legittimita' costituzionale da parte della Consulta, chiamata a verificare - previo giudizio di ammissibilita' in punto di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione da parte del giudice a quo - che esse siano compatibili non soltanto con i diritti fondamentali ma anche con tutte le disposizioni della Costituzione italiana. La Corte costituzionale ha poi escluso che "le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalita' delle leggi nazionali. Tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall'art. 117, primo comma, della Costituzione, e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione". La Consulta ha, altresi', chiarito, quanto ai rapporti tra le due Corti che "hanno in definitiva ruoli diversi, sia pure tesi al medesimo obiettivo di tutelare al meglio possibile i diritti fondamentali dell'uomo .... l'interpretazione della Convenzione di Roma e dei Protocolli spetta alla Corte di Strasburgo ... a questa Corte ... spetta, invece, accertare il contrasto e, in caso affermativo, verificare se le stesse norme CEDU, nell'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, garantiscano una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana". (Corte Cost. sentenza n. 349 del 2007). Ammettere un potere (o addirittura un obbligo di non applicare la legge, (in contrasto col principio Costituzionale che il giudice e' soggetto unicamente alla legge (art. 101 Cost.), significherebbe aprire un pericoloso varco al principio di divisione dei poteri, avallando una funzione di revisione legislativa da parte del potere giudiziario, che appare estraneo al nostro sistema costituzionale, determinando il giudice eventuali limiti di applicazione della normativa nazionale per contrasto con pronunce della Corte di Giustizia, esorbitando dai suoi poteri. L'abrogazione della legge e' vincolata alle ipotesi contemplate dall'art. 15 disp. prel. c.c. e 136 Cost., che non tollerano la disapplicazione da parte del giudice, pur dovendo essere interpretata alla luce dei principi sovranazionali, con le puntualizzazioni sovra evidenziate. 3. Profili di incostituzionalita' dell'art. 187-ter punto 1 del decreto legislativo n. 58 del 1998 alla luce della sentenza della Corte EDU del 4 marzo 2014 (Causa Grande Stevens ed altri c. Italia) La pronuncia della CEDU cit. afferma, come gia' evidenziato, il principio del ne bis in idem alla luce dell'art. 4, par. 1, del Protocollo n. 7 della CEDU, il quale vieta la duplicazione di giudizi penali e amministrativi e, conseguentemente, la doppia applicazione di sanzioni penali nei confronti dei medesimi soggetti e per i medesimi fatti oggetto di sentenza passata in giudicato. In particolare, per quanto di interesse nel presente giudizio, la CEDU ha rilevato che: a) al fine di stabilire se i fatti su cui si e' formato il giudicato sono da considerarsi i medesimi per i quali si procede in altro giudizio, occorre aver riguardo non al fatto inteso in senso giuridico, ossia alla fattispecie astratta descritta dagli artt. 187-ter e 185 TUF, ma al fatto in senso storico-naturalistico, ossia alla fattispecie concreta oggetto dei due procedimenti, a prescindere dagli elementi costitutivi rispettivamente previsti dai menzionati articoli; b) il presupposto al quale e' collegata l'efficacia preclusiva di un nuovo giudizio sullo stesso fatto storico e' costituito dal passaggio in giudicato del provvedimento che definisce uno dei due procedimenti riconducibili alla materia penale; c) le sanzioni irrogate dalla Consob per la fattispecie di manipolazione del mercato di cui all'art. 187-ter TUF, benche' formalmente qualificate come amministrative dall'ordinamento italiano, debbono essere ricondotte alla "materia penale" agli effetti dell'art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU, e cio' in ragione sia della "natura dell'illecito" (ossia della rilevanza dei beni protetti e della funzione anche deterrente della fattispecie in questione) sia della natura e del grado di severita' delle sanzioni (pecuniarie ed interdittive) previste dalla legge e concretamente comminate ai ricorrenti. Il giudice nazionale non puo' ignorare, nella controversia che e' chiamato a decidere, l'interpretazione che delle norme pattizie viene data dalla Corte di Strasburgo, con la conseguenza che, nella realizzazione dell'equo processo ed allo scopo di assicurare la parita' effettiva delle armi in senso sostanziale e processuale (art. 111, 1 comma, Cost.), il giudice interno, affinche' la sua statuizione risulti aderente alle norme della Convenzione, deve tenere conto anche dell'elaborazione del diritto vivente quale proveniente proprio dalla Corte di Strasburgo, che della Convenzione e' il piu' autorevole interprete. Vanno, per comodita' espositiva, individuate le norme rilevanti nella fattispecie. L' art. 185 TUF (Manipolazione del mercato), prevede che venga punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro ventimila a euro cinque milioni - «Chiunque diffonde notizie false o pone in essere operazioni simulate o altri artifizi concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari». (prevedendo anche il raddoppio di dette pene ai sensi dall'art. 39, comma 1, della 1. n. 262/2005). Sotto il profilo amministrativo la legge n. 62/2005 ha rafforzato le competenze della Consob, cui e' stata attribuita un'autonoma potesta' sanzionatoria in via amministrativa, tra l'altro, delle condotte di manipolazione del mercato. L'art. 187-ter, comma 1, TUF (Manipolazione del mercato), prevede: «Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato, e' punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro ventimila a euro cinque milioni chiunque, tramite mezzi di informazione, compreso internet o ogni altro mezzo, diffonde informazioni, voci o notizie false o fuorvianti che forniscano o siano suscettibili di fornire indicazioni false ovvero fuorvianti in merito agli strumenti finanziari». Il comma 3, lett. e), dell'art. 187-ter TUF, fa «salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato», prevedendo che le stesse sanzioni amministrative pecuniarie si applicano a chiunque pone in essere «operazioni od ordini di compravendita che utilizzano artifizi od ogni altro tipo di inganno o di espediente». Dall'esame comparato delle predette norme si evince il sistema del c.d. doppio binario tra il reato di manipolazione del mercato (art. 185 TUF) e la analoga fattispecie amministrativa (art. 187-ter TUF) essendo prevista, nei rispettivi giudizi, una duplice sanzione penale ed amministrativa, in antitesi col principio espresso dalla sentenza CEDU "Grande Stevens", cit., che ha, invece, affermato l'opposto ed antitetico principio del "ne bis in idem". Tale ultimo principio e' individuabile in fonti di produzione normativa di livello internazionale e interunione, oltre ad essere affermato dalla giurisprudenza nazionale, ma solamente, in tale ultimo caso, con riferimento a sanzioni di carattere strettamente penale. In sede di diritto internazionale pattizio, il principio del "ne bis in idem", e' sancito dall'art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU, rubricato «Diritto di non essere giudicato o punito due volte», il quale, al comma 1, dispone che «Nessuno puo' essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale e' gia' stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge ed alla procedura penale di tale Stato». Il divieto del bis in idem, a livello interunione, e' previsto dall'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (c.d. "Carta di Nizza"), intitolato «Diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato», il quale stabilisce che «Nessuno puo' essere perseguito o condannato per un reato per il quale e' gia' stato assolto o condannato nell'Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge». La medesima garanzia in ambito nazionale, e' riconosciuta dall'art. 649 c.p.p., rubricato «Divieto di un secondo giudizio», il quale prescrive che «L'imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non puo' essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze, salvo quanto disposto dagli artt. 69, comma 2, e 345». Nel caso "Grande Stevens" appare chiaro l'orientamento dei giudici di Strasburgo, di rimproverare agli organi giurisdizionali la mancata disapplicazione di un principio (ne bis in idem) che il legislatore nazionale ha introdotto in materia penale ma non nei rapporti tra sanzione amministrativa di natura penale e sanzione penale. Va rilevato che i medesimi comportamenti oggetto della sentenza di patteggiamento sono in effetti puniti con una sanzione qualificata come «amministrativa» dall'art. 187-ter punto 1 del decreto legislativo n. 58 del 1998, in aggiunta alla sanzione penale. La mancata previsione dell'allargamento del principio "ne bis in idem" anche ai rapporti tra processi e, specificamente, tra sanzione penate e amministrativa di natura penale appare non conforme alle norme costituzionali, il che comporta che la questione di costituzionalita' che con la presente ordinanza si solleva e' rilevante nel giudizio de quo, giacche' non appare conforme ai principi sovranazionali sanciti dalla CEDU la previsione del doppio binario e, quindi della cumulabilita' tra sanzione penale e amministrativa, applicata in processi diversi, qualora quest'ultima abbia natura di sanzione penale, ancorche' davanti alla Cedu la prospettazione riguardasse la sanzione penale conseguente alla sanzione amministrativa e nel presente giudizio si tratti di sanzione amministrativa comminata dalla Consob successiva a sanzione penale. Va, anche rimessa alla Consulta, alla luce dei principi CEDU, determinare il rilievo, ai fini della applicazione del principio del "ne bis in idem", della valutazione, da parte del giudice nazionale, della effettiva afflittivita' della sanzione penale che, nella specie, e' limitata, di fatto, alle sole pene accessorie (la pena in concreto inflitta - tre anni - e' stata dichiarata interamente condonata), senza che sia emersa prova, nel giudizio di merito, di un effettivo pregiudizio nelle sfera personale - patrimoniale del Ricucci, non risultando comminata alcuna pena pecuniaria, mentre la sanzione comminata dalla Consob e', invece, solamente di natura pecuniaria (€ 5.000.000). Trattasi di una valutazione di natura oggettiva che emerge dalle pronunce prodotte, che non implica alcuna valutazione di merito, eventualmente rimettibile al giudice del rinvio. Al fine di offrire una panoramica il piu' possibile completa, occorre anche verificare se la obbligatorieta' delle sanzioni amministrative nel sistema degli illeciti di market abuse sia configgente col sistema del c.d., divieto del ne bis in idem, allorche' venga preliminarmente emessa una sanzione penale e se, eventualmente, quest'ultima, a prescindere dalla sua afflittivita' e proporzionalita', in relazione al fatto commesso, sia preclusiva alla comminatoria della sanzione amministrativa, o se ne debba solamente tenere conto al fine della successiva comminatoria della sanzione amministrativa. Tali riflessioni sono indotte dalla direttiva 2003/6/CE (ed. Market Abuse Directive MAD) che in materia di abusi di mercato impone agli Stati membri l'obbligo di adottare sanzioni amministrative - «effective, proportionate and dissuasive» - lasciando loro la facolta' di prevedere nel contempo anche sanzioni penali - cd. "sistema a doppio binario" - in forza del quale, in caso di convergenza dei medesimi fatti, l'illecito penale concorre con il corrispondente illecito amministrativo, con conseguente cumulo delle rispettive sanzioni, in deroga al principio di specialita' di cui all'art. 9 della legge n. 689 del 1981. Il sistema del doppio binario e' anche previsto dall'art. 187-duodecies del TUF (Rapporti tra procedimento penale e procedimento amministrativo e di opposizione), prevedendosi che «il procedimento amministrativo di accertamento e il procedimento di opposizione di cui all'art. 187-septies non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento dipende la relativa definizione». L'art. 187-terdecies del TUF (Esecuzione delle pene pecuniarie e delle sanzioni pecuniarie nel processo penale prevede, al comma 1, che «quando per lo stesso fatto e' stata applicata a carico del reo o dell'ente una sanzione amministrativa pecuniaria ai sensi dell'art. 187-septies.... la esazione della pena pecuniaria e della sanzione pecuniaria dipendente da reato e' limitata alla parte eccedente quella riscossa dall'Autorita' amministrativa». Trattasi del principio del "ne bis in idem attenuato" a cui fa da contraltare il principio del doppio binario attenuato che potrebbero trovare anche applicazione nella fattispecie in esame ove la Consulta dovesse propendere per una pronuncia additiva. Potrebbe cosi' anche trovare quantomeno parziale legittimita' costituzionale il regime del c.d. "doppio binario", sia pure nei limiti che eventualmente la Corte vorra' individuare con conseguente cumulo delle rispettive sanzioni, valutando la possibile applicazione del principio della progressione illecita tra le due fattispecie, penale e amministrativa. Nella sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, Sez. II, del 4 mar 2014 (causa Grande Stevens ed altri c. Italia) «la Corte rammenta la sua consolidata giurisprudenza ai sensi della quale, al fine di stabilire la sussistenza di una «accausa in materia penale», occorre tener presente tre criteri: la qualificazione giuridica della misura in causa nel diritto nazionale, la natura stessa di quest'ultima, e la natura e il grado di severita' della «sanzione» (Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976, § 82, serie A n. 22). "Questi criteri sono peraltro alternativi e non cumulativi: affinche' si possa parlare di «accusa in materia penale» ai sensi dell'art. 6 § 1, e' sufficiente che il reato in causa sia di natura «penale» rispetto alla Convenzione, o abbia esposto l'interessato a una sanzione che, per natura e livello di gravita', rientri in linea generale nell'ambito della «materia penale». Cio' non impedisce di adottare un approccio cumulativo se l'analisi separata di ogni criterio non permette di arrivare ad una conclusione chiara in merito alla sussistenza di una «accusa in materia penale» (Jussila c. Finlandia [GC], n. 73053/01, §§ 30 e 31, CEDU 2006-XIII, e Zaicevs c. Lettonia, n. 65022/01, § 31, CEDU 2007-IX (estratti)". L'imputazione di cui al capo g) della sentenza di patteggiamento (artt. 81, 185 d.lgs. 24.2.1998 n. 58 e successive modifiche prevede l'accusa, nei confronti del Ricucci, quale Presidente del Consiglio di Amministrazione della Magiste International s.a. e quale dominus di fatto della Garlsson Real Estate s.a. di "diffusione di notizie false concretamente idonee a provocare una sensibile alterazione del prezzo del titolo RCS Mediagroup", mediante condotte specificamente evidenziate che sono sostanzialmente le medesime contestate con la violazione amministrativa. Sempre in relazione al capo g) contestato al Ricucci, la sentenza penale prevede l'aumento per la continuazione determinato in mesi quattro di reclusione, mentre la pena inflitta e' stata di complessivi anni 4 e mesi 6 di reclusione (di cui anni 4 per il reato di corruzione, anni 2, mesi 6 per la continuazione), pena ridotta ad anni 3 per la scelta del rito e quindi, estinta per indulto ex l. 241/06. Va anche considerato che sono state applicate al Ricucci le pene accessorie della: a) interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese per la durata di anni tre; b) incapacita' di contrattare con la P.A. per anni 3, salvo che per ottenere la prestazione di un pubblico servizio, c) interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria per anni 3; d) interdizione perpetua dall'ufficio di componente di commissione tributaria; e) pubblicazione della sentenza su due quotidiani di rilevanza nazionale; f) interdizione dai pubblici uffici per anni 3. Va, tuttavia, rilevato che sia la condanna penale (con pena estinta per indulto), sia le sanzioni accessori sono state comminate in forza di reati in parte diversi da quelli oggetto della sanzione amministrativa (a cui corrisponde la pena inflitta, quale continuazione (art. 81 c.p.p.) di mesi 4). In concreto la sanzione penale non risulta essere stata oggettivamente afflittiva, essendo stata interamente condonata a seguito di indulto e non essendo emerso, nel giudizio di merito che le pena accessorie abbiano avuto anch'esse efficacia, in concreto, oggettivamente afflittive, lei confronti del Ricucci. Si chiede anche alla Consulta anche di verificare se il principio del «ne bis in idem» sancito dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo (Cedu), vieti tout court di sanzionare, in diversi processi, due volte lo stesso illecito, impedendo allo stato membro di comminare una violazione amministrativa di natura penale in presenza di una sanzione penale per gli stessi fatti, o viceversa, e quindi se sia sufficiente l'astratta comminatoria di una sanzione penale a rendere illegittima la successiva sanzione amministrativa, sempre che abbia natura penale, oppure se debba, comunque, tenersi conto, nella determinazione della sanzione amministrativa, della sanzione penale, in ossequio ai principi di effettivita' e proporzionalita'. Le ragioni che precedono, riassumibili nell'impossibilita' da parte di questa Corte, di disapplicare una legge dello Stato, pur ritenuta in contrasto con la C.E.D.U. escludono che la questione possa essere risolta in via interpretativa, con l'adozione di una lettura secundum constitutionem, anche facendo ricorso a tutti gli ordinari criteri ermeneutici, non essendo in grado questa Corte di applicare la legge nazionale conformemente alla CEDU nell'interpretazione fornita dalla stessa Corte EDU. I principi affermati dalla CEDU nella sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, Sez. II, del 4 marzo 2014 (causa Grande Stevens ed altri c. Italia) con riferimento all'art. 187-ter punto 1 del decreto legislativo n. 58 del 1998, appaiono in contrasto con l'art. 117, comma 1, Cost. Costituzione, e inducono a rimettere gli atti alla Corte Costituzionale per un rinnovato esame della norma, anche alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, che, come sopra spiegato, non consente di supplire alla funzione del legislatore mediante un coordinamento delle fonti nel senso di affermare la prevalenza di quella convenzionale su quella interna. Conclusivamente, va dichiarata rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale riguardante l'art. 187-ter punto 1 del decreto legislativo n. 58 del 1998, alla luce della sentenza della Corte EDU del 4 marzo 2014, che ha ritenuto che le sanzioni amministrative previste dalla disciplina italiana sugli abusi di mercato siano da considerarsi "penali", a prescindere dalla loro qualificazione formale nel diritto interno, per contrasto con l'art. 117 Cost., primo comma, Cost., anche alla luce degli artt. 2 e 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, nella parte in cui, prevedendo la comminatoria congiunta della sanzione penale prevista dall'art. 185 del d.lgs. n. 58 del 1998 e della sanzione amministrativa prevista per l'illecito di cui all'art. 187-ter d.lgs. cit., violando i vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, in ragione della definitivita' della sentenza del Tribunale di Roma n. 24796/08 del 10.12.2008, passata in giudicato nei confronti delle parti ricorrenti. Ai sensi dell'art. 23 legge 11 marzo 1953 n. 87, alla dichiarazione di rilevanza nel giudizio e non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale, segue la sospensione del giudizio, e l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.